Il ragù comincia sempre da un gesto paziente, quasi un rito domestico. Il macinato di manzo entra in padella e sfrigola, rilascia il suo liquido, poi si asciuga piano finché la carne non ritrova il suo colore vivo. In un’altra padella la salsiccia si apre, perde il grasso in eccesso, profuma di campagna. Quando i due sapori si incontrano, la casa cambia odore: è l’aroma delle cucine antiche, quelle che non hanno fretta.
Il fondo di cipolla, sedano e carota attende al suo posto, dolce e nascosto come un segreto. La carne lo abbraccia e se ne impregna. Il fascetto di erbe aromatiche, legato con lo spago come si faceva un tempo, entra nella pentola e porta con sé la saggezza semplice di salvia, rosmarino, alloro e timo. I pelati si spezzano con le mani, uno dei gesti più veri della cucina; il concentrato dà profondità; un goccio di latte addolcisce e ronda gli spigoli dell’acidità. Il ragù prende allora quel passo lento che non si può accelerare: sobbolle, respira, si trasforma.
È un piatto che sa di casa, di stoviglie vissute, di giornate che hanno bisogno di calore. E ha un vantaggio prezioso: si può dividere in vaschette, riporre nel congelatore e tenere lì come una piccola scorta di futuro buono. È risparmio, organizzazione, ma soprattutto cura di sé.